Salire
sugli alberi mi è sempre piaciuto. Forse perché i loro rami sono grandi e
accoglienti come le braccia di una madre. Forse perché da lassù tutto acquista
una prospettiva diversa.
Gli
uomini si fanno più piccoli, i rumori del mondo incontrano la barriera delle
fronde e ne vengono attutiti, persino il tempo sembra rallentare la sua corsa,
accettando di seguire il ritmo di vita degli alberi.
Sono
cresciuto al terzo piano di un grande palazzo che, da un lato, si affacciava
sul corso Torino, una grande strada di scorrimento a carreggiate separate con
un controviale alberato sul lato opposto. Marciapiedi ampi, innumerevoli
vetrine di negozi, bar e ristoranti, un flusso ininterrotto di persone e mezzi,
compresi quei tir che saltellando sul porfido sconnesso del manto stradale
facevano vibrare i muri del palazzo.
Il manto di cemento che ricopre ogni città
iniziava lì e la fila di case che, come la nostra, costeggiava il versante
occidentale di corso Torino ne costituiva l’ultimo lembo. Sull’altro lato,
infatti, dallo spazioso balcone della sala da pranzo, si potevano vedere le
prime propaggini della campagna: al di là del giardino condominiale, in fondo
ad brusco pendio, iniziava un terreno brullo e scorbutico, ricoperto da erba
mal cresciuta e da piccoli arbusti, qualche albero soltanto accanto alle rive
del Borbore; ma, in lontananza, si stagliavano le colline e, nelle giornate di
cielo limpido, il profilo delle Alpi all’orizzonte, con il Sole che, al
tramonto, sembrava disfarsi come un tuorlo d’uovo sul bordo frastagliato delle
montagne, ammorbidendone i contorni con i toni caldi dell’arancione.
Pareva
che il mio palazzo fosse stata eretto su uno spartiacque tra due mondi, quasi
fosse un muro di cinta che separava la città dal contado. Il confine
attraversava longitudinalmente il mio appartamento, separando le camere da
letto, impregnate dei rumori della città, dalla zona giorno, affacciata invece
sul verde silenzioso della campagna.
Proprio
di fronte al balcone della cucina si ergeva un maestoso abete rosso. Silenzioso
custode della nostra pace, era tanto imponente da poter gareggiare in altezza
con l’alveare di cemento che gli stava di fronte e i suoi rami
sembravano così vicini che, nei miei sogni i bambino, era sufficiente un
piccolo balzo per rifugiarmi tra i suoi rami.
Erano
molti gi alberi tra cui giocavamo, i salici dai rami sottili e cadenti, le
betulle dalla bianca corteccia che si sfogliava come scottata dal troppo sole
dell’estate, pini e abeti di diverse taglie e toni di verde; ma il grande abete
rosso era l’Albero, il sovrano indiscusso, saggio e imponente; isolato nella
sua aiuola circondata dal cemento e dalla ghiaia del cortile interno, su cui
era nostra abitudine grattugiarci le ginocchia durante le partite di calcio,
era affiancato da un pino molto più piccolo, quasi un paggio della sua piccola
corte. Sì, perché di fianco c’era un’altra aiuola con un’altra coppia di
alberi, un abete rosso poco più basso di Sua Maestà, quasi fosse la sua Regina,
accompagnata anch’essa dal suo personale paggio.
Oh
certo, per i grandi Lui era soltanto un albero troppo cresciuto, utile magari
per dare un po’ di refrigerio nelle assolate giornate estive, ma anche
fastidioso per la quantità di aghi, pigne e resina che lasciava cadere al suolo
e soprattutto sulle auto parcheggiate intorno alla sua aiuola. Ma , per nostra
fortuna, i grandi partivano da casa al mattino e, per lo più, non li si vedeva
fino a sera.
Amavo
quell’albero, come si ama l’amico più caro, quello che non si annoia mai di
ascoltarti, quello con cui condividi gli istanti più preziosi della tua vita.
Ci fu un giorno, tuttavia, in cui l’Albero sembrò tradirmi, scrollandomi via da
un suo ramo come una pulce fastidiosa o un animaletto impertinente che
pretendesse di prendere possesso delle sue fronde accoglienti.
Avevo
una decina d’anni e me ne stavo a cavalcioni di un grosso ramo a circa dieci
metri dal suolo, quando scivolai. Come spinto da una forza invisibile, mi
inclinai sul lato destro, il baricentro del mio corpo di bambino si spostò inesorabilmente
al di fuori di esso e la forza di gravità se ne impadronì, spingendomi verso il
basso a testa in giù.
Persi
il contatto con il ramo e mi ritrovai per aria. Una vertigine mi attraversò e
il tempo sembrò rallentare bruscamente, fin quasi a fermarsi. Ma non era il
tempo a scorrere diversamente dal solito. Erano i miei sensi che, per una
subitanea esplosione di adrenalina, assorbivano stimoli dal mondo esterno dieci
volte più rapidamente del normale. Ad un certo punto, la percezione della
realtà intorno a me si fece così intensa che ebbi la sensazione di vedere con
occhi immateriali me stesso cadere.
Per
quanto quell’evento sia scolpito nella mia memoria con solchi netti e profondi,
resta però un vuoto nel ricordo di quei pochi attimi. Forse il cervello,
sovraccaricandosi di informazioni, ad un certo punto smette di registrarle o
forse questi stimoli sensoriali scorrono ad un ritmo così sostenuto che non
hanno modo di imprimersi nella memoria per intero.
Ma
c’è anche un’altra possibile spiegazione. Quando si cade malamente e si ha la
precisa consapevolezza del dolore che si proverà il cervello agisce prontamente
attutendone gli effetti. Ma quando caddi io, il cervello disse al corpo che non
c’era modo di salvarsi – FINE, STOP, contatti chiusi - e io caddi come un corpo
morto cade. Ma, imprevedibilmente, tornando alla vita, mi ritrovai, senza il minimo
graffio, a cavalcioni di un altro ramo tre metri più in basso.
Scesi
dall’Albero imponendomi di procedere con lentezza e di afferrare saldamente i
rami. Arrivai a terra inebetito dallo spavento e, ancor più, dalla sensazione
di irrealtà di ciò che era accaduto. Avevo l’impressione quasi fisica che una
forza cosciente, esterna a me, avesse mutato il corso regolare degli eventi per
una qualche ragione a me sconosciuta e che adesso ridesse della mia
incredulità.