sabato 19 aprile 2014

PRESENTAZIONE - parte prima

Che si faccia conoscenza con un estraneo o si inizi un blog è sempre buona norma presentarsi, innanzitutto. E io lo farò con questo breve racconto.



Salire sugli alberi mi è sempre piaciuto. Forse perché i loro rami sono grandi e accoglienti come le braccia di una madre. Forse perché da lassù tutto acquista una prospettiva diversa.
Gli uomini si fanno più piccoli, i rumori del mondo incontrano la barriera delle fronde e ne vengono attutiti, persino il tempo sembra rallentare la sua corsa, accettando di seguire il ritmo di vita degli alberi.

Sono cresciuto al terzo piano di un grande palazzo che, da un lato, si affacciava sul corso Torino, una grande strada di scorrimento a carreggiate separate con un controviale alberato sul lato opposto. Marciapiedi ampi, innumerevoli vetrine di negozi, bar e ristoranti, un flusso ininterrotto di persone e mezzi, compresi quei tir che saltellando sul porfido sconnesso del manto stradale facevano vibrare i muri del palazzo.
 Il manto di cemento che ricopre ogni città iniziava lì e la fila di case che, come la nostra, costeggiava il versante occidentale di corso Torino ne costituiva l’ultimo lembo. Sull’altro lato, infatti, dallo spazioso balcone della sala da pranzo, si potevano vedere le prime propaggini della campagna: al di là del giardino condominiale, in fondo ad brusco pendio, iniziava un terreno brullo e scorbutico, ricoperto da erba mal cresciuta e da piccoli arbusti, qualche albero soltanto accanto alle rive del Borbore; ma, in lontananza, si stagliavano le colline e, nelle giornate di cielo limpido, il profilo delle Alpi all’orizzonte, con il Sole che, al tramonto, sembrava disfarsi come un tuorlo d’uovo sul bordo frastagliato delle montagne, ammorbidendone i contorni con i toni caldi dell’arancione.
Pareva che il mio palazzo fosse stata eretto su uno spartiacque tra due mondi, quasi fosse un muro di cinta che separava la città dal contado. Il confine attraversava longitudinalmente il mio appartamento, separando le camere da letto, impregnate dei rumori della città, dalla zona giorno, affacciata invece sul verde silenzioso della campagna.  

Proprio di fronte al balcone della cucina si ergeva un maestoso abete rosso. Silenzioso custode della nostra pace, era tanto imponente da poter gareggiare in altezza con l’alveare di cemento che gli stava di fronte e i suoi rami sembravano così vicini che, nei miei sogni i bambino, era sufficiente un piccolo balzo per rifugiarmi tra i suoi rami.
Erano molti gi alberi tra cui giocavamo, i salici dai rami sottili e cadenti, le betulle dalla bianca corteccia che si sfogliava come scottata dal troppo sole dell’estate, pini e abeti di diverse taglie e toni di verde; ma il grande abete rosso era l’Albero, il sovrano indiscusso, saggio e imponente; isolato nella sua aiuola circondata dal cemento e dalla ghiaia del cortile interno, su cui era nostra abitudine grattugiarci le ginocchia durante le partite di calcio, era affiancato da un pino molto più piccolo, quasi un paggio della sua piccola corte. Sì, perché di fianco c’era un’altra aiuola con un’altra coppia di alberi, un abete rosso poco più basso di Sua Maestà, quasi fosse la sua Regina, accompagnata anch’essa dal suo personale paggio.
Oh certo, per i grandi Lui era soltanto un albero troppo cresciuto, utile magari per dare un po’ di refrigerio nelle assolate giornate estive, ma anche fastidioso per la quantità di aghi, pigne e resina che lasciava cadere al suolo e soprattutto sulle auto parcheggiate intorno alla sua aiuola. Ma , per nostra fortuna, i grandi partivano da casa al mattino e, per lo più, non li si vedeva fino a sera.

Amavo quell’albero, come si ama l’amico più caro, quello che non si annoia mai di ascoltarti, quello con cui condividi gli istanti più preziosi della tua vita. Ci fu un giorno, tuttavia, in cui l’Albero sembrò tradirmi, scrollandomi via da un suo ramo come una pulce fastidiosa o un animaletto impertinente che pretendesse di prendere possesso delle sue fronde accoglienti.
Avevo una decina d’anni e me ne stavo a cavalcioni di un grosso ramo a circa dieci metri dal suolo, quando scivolai. Come spinto da una forza invisibile, mi inclinai sul lato destro, il baricentro del mio corpo di bambino si spostò inesorabilmente al di fuori di esso e la forza di gravità se ne impadronì, spingendomi verso il basso a testa in giù.
Persi il contatto con il ramo e mi ritrovai per aria. Una vertigine mi attraversò e il tempo sembrò rallentare bruscamente, fin quasi a fermarsi. Ma non era il tempo a scorrere diversamente dal solito. Erano i miei sensi che, per una subitanea esplosione di adrenalina, assorbivano stimoli dal mondo esterno dieci volte più rapidamente del normale. Ad un certo punto, la percezione della realtà intorno a me si fece così intensa che ebbi la sensazione di vedere con occhi immateriali me stesso cadere.
Per quanto quell’evento sia scolpito nella mia memoria con solchi netti e profondi, resta però un vuoto nel ricordo di quei pochi attimi. Forse il cervello, sovraccaricandosi di informazioni, ad un certo punto smette di registrarle o forse questi stimoli sensoriali scorrono ad un ritmo così sostenuto che non hanno modo di imprimersi nella memoria per intero.
Ma c’è anche un’altra possibile spiegazione. Quando si cade malamente e si ha la precisa consapevolezza del dolore che si proverà il cervello agisce prontamente attutendone gli effetti. Ma quando caddi io, il cervello disse al corpo che non c’era modo di salvarsi – FINE, STOP, contatti chiusi - e io caddi come un corpo morto cade. Ma, imprevedibilmente, tornando alla vita, mi ritrovai, senza il minimo graffio, a cavalcioni di un altro ramo tre metri più in basso.
Scesi dall’Albero imponendomi di procedere con lentezza e di afferrare saldamente i rami. Arrivai a terra inebetito dallo spavento e, ancor più, dalla sensazione di irrealtà di ciò che era accaduto. Avevo l’impressione quasi fisica che una forza cosciente, esterna a me, avesse mutato il corso regolare degli eventi per una qualche ragione a me sconosciuta e che adesso ridesse della mia incredulità.