lunedì 22 settembre 2014

recensione al libro di David Grann, Z. La città perduta, Ed. Corbaccio.




recensione al libro di David Grann, Z. La città perduta, Ed. Corbaccio.

Per chi ama l’Amazzonia come me è stato un libro di un certo interesse,non solo perché mi ha fatto conoscere un personaggio di cui prima ignoravo l’esistenza, Percy Harrison Fawcett, “l’ultimo dei grandi esploratori vittoriani ad avventurarsi per lande inesplorate confidando in poco più di un machete, una bussola e una determinazione sovrumana”, ma anche perché – e questa è la parte più significativa del libro – rivela che gli indios amazzonici non sono affatto popoli senza storia.
Una certa vulgata anche scientifica ha diffuso un’immagine cristallizzata dell’Amazzonia quale luogo privo di storia, un “inferno verde” o un “paradiso illusorio” in cui la sovrabbondanza di vita animale e vegetale unita ad un clima ostile non consentirebbero l’instaurarsi di comunità più articolate delle tribù amazzoniche odierne, né un’evoluzione di queste ultime verso forme sociali più complesse. 
Percy Harrison Fawcett, il protagonista di questa lunga inchiesta giornalistica, la pensava diversamente. A seguito delle sue spedizioni si era convinto dell’esistenza, nel cuore dell’Amazzonia, di una vera e propria città, che lui battezzò “Z”, e si mise alla caccia dei sui resti attratto non tanto dal mito dell’Eldorado e delle sue favolose ricchezze, quanto dal desiderio autentico di scrivere «un nuovo capitolo della storia dell’uomo». Perché Fawcett non era affatto un avventuriero pazzo, come una lettura superficiale potrebbe far credere: godeva infatti di una solida formazione scientifica, di un senso della disciplina e di un approccio metodico ad ogni spedizione frutto della sua formazione militare; qualità che, unite  ad una resistenza fisica “tale cha alcuni dei suoi colleghi arrivarono addirittura ad affermare che fosse immune alla morte” e alla sua capacità di instaurare con le tribù amazzoniche un dialogo nutrito da un crescente rispetto per loro[1], decisamente anomalo per l’epoca[2], lo rendevano la perfetta incarnazione dell’esploratore britannico “come vorremmo che fosse”, alimentando così il mito del buon europeo portatore di vera civiltà, non meno affascinante del mito speculare a questo, ovvero il mito del buon selvaggio[3].
Ad alimentare il mito personale del colonnello Fawcett fu poi la sua misteriosa scomparsa nel fitto della foresta amazzonica. Il vuoto di informazioni attendibili – peraltro in parte dovuto allo stesso Fawcett, che, ad un certo punto, tentò di depistare i suoi colleghi esploratori e potenziali concorrenti -  ha alimentato una miriade di ipotesi fantasiose, ottimo materiale per i romanzieri, e numerose spedizioni di ricerca; ma ciò che rende ancora attuale la figura di questo grande esploratore è soprattutto il fatto che le scoperte archeologiche degli ultimi anni rivelano quanto fosse vicino alla verità[4]. C’erano veramente città immerse nella foresta ed “erano proprio il tipo di strade e villaggi di cui avevano parlato i conquistadores spagnoli quando avevano visitato l’Amazzonia, quelli ai quali Fawcett aveva così ardentemente creduto e che gli scienziati del XX secolo avevano etichettato come miti”. Fawcett aveva gli occhi per vedere il passato dei popoli dell’Amazzonia, ma non aveva gli strumenti per sapere cosa cercare, non rovine di palazzi e monumenti in pietra, ma tracce nel terreno di antichi insediamenti.
D’altra parte, le convinzioni di Fawcett erano maturate nel corso di vent’anni di esplorazioni in Amazzonia, durante i quali aveva raccolto molti indizi a conferma della sua teoria:
-          Innanzitutto, sin dal 1914 “intuì che le tribù più ricche e popolose si trovavano in regioni lontane dai fiumi principali, ossia lontane da dove molti europei e cacciatori di schiavi erano arrivati”. Erano tribù che, suscitando il suo stupore, “davano prova di una cultura sofisticata” e, spesso, “raccontavano leggende circa i loro antenati che vivevano in insediamenti anche più imponenti e belli”.
-          Su rocce nella giungla trovò “qualcosa che assomigliava ad antiche pitture e incisioni di figure umane e animali[5]” e notò che su ogni alturas, ossia collinette che si innalzano sulla piana della foresta, si potevano facilmente trovare nel terreno dei manufatti, ad esempio frammenti di ceramica, e, inoltre, “queste alturas erano collegate da una sorta di tracciati allineati geometricamente. Sembravano, e ci avrebbe quasi giurato, «sentieri» e «strade sopraelevate»”.
-          Le cronache dei conquistadores “riferivano concordi di popolazioni indigene numerose e dense”, con vere e proprie città costruite all’interno della foresta. In particolare, Fawcett era riuscito a scovare un manoscritto, ora conservato presso la Biblioteca Nazionale di Rio de Janeiro, intitolato «Relazione storica di una grande, antichissima città nascosta […] scoperta nell’anno 1753», che “considerava l’elemento determinante a riprova della sua teoria della civiltà amazzonica perduta”.
Fawcett pensava che quest’ultima città si trovasse verso lo stato di Bahia, mentre Z, la città “monumentale che cercava, e magari anche qualche traccia della sua popolazione originaria, si celasse nelle foreste del fiume Xingu, nel Mato Grosso brasiliano”. Più precisamente, “era arrivato alla conclusione che nella parte meridionale del bacino amazzonico, tra gli affluenti Tapajós e Xingu, si trovassero «le più significative rovine di una civiltà antica»”.
Fawcett era comunque un uomo del suo tempo e “non riuscì mai ad affrancarsi da quel che lo storico Dane Kennedy definì «labirinto mentale della razza»” né “riuscì mai a spiccare il salto finale degno di un antropologo moderno e accettare che civiltà complesse potessero svilupparsi in maniera indipendente le une dalle altre”. D’altra parte, “ancora all’inizio del XX secolo, l’allora popolare scuola diffusionista degli antropologi continuava a sostenere che, semmai fosse esistita un’antica civiltà sofisticata in Sud America, le sue origini sarebbero state occidentali o vicino-orientali, da ricercare nelle tribù perdute di Israele, per esempio, o tra i marinai fenici”.

Interessante è anche un altro aspetto di questo libro, ossia la percezione dell’ecosistema amazzonico da parte di noi bianchi. A questo proposito, sembra che l’impatto iniziale di ogni occidentale posto di fronte all’immensità amazzonica sia sempre pressoché identico. Una sensazione debilitante di costante minaccia per la propria vita, immersi nell’atmosfera ovattata dell’appiccicaticcio clima equatoriale, una cortina di umidità al cui interno gli incubi peggiori paiono materializzarsi, spingendo chi vi si avventura alla follia o ad una morte atroce.
 Facendo riferimento alla sua prima esplorazione dell’Amazzonia, tra il 1906 e il 1907, quando si inoltrò nella foresta tra Bolivia e Brasile, Fawcett scrive del suo viaggio lungo un «fiume così tranquillo, ma così minaccioso, con quella corrente tanto debole, e quelle acque profonde che sembravano condurci verso ogni sorta di sciagure». E ancora: «I demoni dei fiumi amazzonici pervadevano ogni cosa; erano là, nel cielo basso, nella pioggia a catinelle e nelle cupe pareti della selva». Insomma, in Amazzonia “il regno animale «si contrappone all’uomo come in nessun’altra parte del mondo»”: questa almeno è l’impressione iniziale, motivata già dal semplice fatto che la sovrabbondanza di flora e fauna non corrisponde affatto ad una immediata disponibilità di cibo commestibile e non è facile abituarsi “a un senso di fame così intenso, costante, oppressivo, che rode dentro, mina la mente e il fisico”, mentre i suoni della selva non si interrompono mai e sembrano martellarti fin nel più profondo della coscienza.
Fawcett, grazie alla sua straordinaria apertura mentale, ebbe ben presto modo di comprendere che questa visione dell’Amazzonia non era reale, bensì frutto della nostra ignoranza e della nostra supponenza di occidentali maldisposti ad accettare di imparare dagli indios come si vive nella foresta amazzonica. Lui, al contrario, desiderò fin dall’inizio stabilire un contatto con gli indios e appena ne ebbe l’occasione, mettendo seriamente a rischio la propria vita, avvicinò una tribù di Guarayos resa ostile dalla precedenti esperienze con gli occidentali e seppe farseli amici. Ebbe così modo di scoprire che la loro vita era perfettamente integrata con la foresta, di cui possedevano una conoscenza senza pari: ogni albero, fiore o animale ospitati nel tratto di foresta che costituiva il loro territorio non aveva segreti per loro e sapevano con assoluta tranquillità trovarne un esemplare in caso di necessità, e da ciò che li circondava, da quell’inferno verde che falcidiava e torturava gli esploratori occidentali ricavavano senza eccessiva fatica tutto ciò che occorreva loro – cibo, farmaci portentosi, veleni per la caccia e la guerra, materiale per le armi e gli strumenti della vita quotidiana, fibre per i capi di abbigliamento e pitture per gli elementi decorativi.


[1] Il suo apprezzamento per la civiltà occidentale si fece ancor più critico a seguito della sua partecipazione alla Prima guerra mondiale, tanto che, a conclusione di una sua lettera pubblicata in un giornale inglese, scriveva: «Dopo aver visto certe cose, Civiltà è una parola senza senso. Questa guerra è stata un’insana esplosione dei più bassi istinti umani».
E fu a seguito di quegli orrori che Fawcett “cercò sollievo nello spiritismo e nei riti occulti”, avvicinandosi alle teorie di Madame Blavatsky. Tendenza che la crescente avversità degli ambienti accademici alle sue teorie accrebbe ancor più, influenzando anche la sua visione di Z.
[2] Fawcett criticò aspramente gli atti di violenza gratuita compiuti spesso dagli esploratori del bacino amazzonico e si comportò sempre, ad eccezione di un solo episodio, in modo esattamente opposto a come ci si poteva aspettare, cercando un contatto pacifico con gli indios che, di volta in volta, incontrava. In questo quadro si inserisce anche il suo rispetto per gli animali.
[3] A queste doti vanno aggiunte l’insofferenza per la debolezza fisica e psicologica di molti suoi compagni di fronte alle avversità della foresta, che questi percepivano come una sua inumana spietatezza, anche perché il suo entusiasmo lo portava a marciare senza sosta fino al limite delle proprie energie, spinto dall’ingordigia di posti nuovi e inesplorati (infatti i suoi migliori compagni furono quei pochi dotati della sua stessa resistenza fisica ma capaci di imporre dei limiti a questo suo inarrestabile entusiasmo); l’apprezzamento per la musica come salvezza anche nella foresta dalla pazzia della solitudine.
[4] L’Autore illustra, in particolare, le ricerche condotte da Michael Heckenberger, archeologo dell’Università della Florida, proprio nella zona in cui Fawcett scomparve per sempre, ossia il remoto Xingu. Lo stesso Heckenberger si dice affascinato dalla figura dell’esploratore inglese, sottolinea che “anche così, con la sua preparazione in qualche modo dilettantesca, andò avanti e fu in grado di vedere le cose in modo più chiaro di molti studiosi di professione” e spiega perché Fawcett non poteva trovare la mitica Z.: «Non ce n’è molta di pietra, nella selva, e gran parte degli insediamenti era costruita con materiale organico, come legno e palme, e terrapieni, tutta roba che si decompone».
[5] Scoperte simili furono fatte anche dalla spedizione condotta da Alexander Hamilton Rice, suo principale contendente, lungo il Casiquiare, canale naturale che collega i sistemi fluviali dell’Orinoco e del Rio delle Amazzoni, nel 1920.
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