recensione al libro di David Grann, Z. La città perduta, Ed. Corbaccio.
Per chi ama l’Amazzonia come me è
stato un libro di un certo interesse,non solo perché mi ha fatto conoscere un
personaggio di cui prima ignoravo l’esistenza, Percy Harrison Fawcett,
“l’ultimo dei grandi esploratori vittoriani ad avventurarsi per lande
inesplorate confidando in poco più di un machete, una bussola e una
determinazione sovrumana”, ma anche perché – e questa è la parte più
significativa del libro – rivela che gli indios amazzonici non sono affatto popoli
senza storia.
Una certa vulgata anche
scientifica ha diffuso un’immagine cristallizzata dell’Amazzonia quale luogo
privo di storia, un “inferno verde” o un “paradiso illusorio” in cui la
sovrabbondanza di vita animale e vegetale unita ad un clima ostile non
consentirebbero l’instaurarsi di comunità più articolate delle tribù
amazzoniche odierne, né un’evoluzione di queste ultime verso forme sociali più
complesse.
Percy Harrison Fawcett, il protagonista
di questa lunga inchiesta giornalistica, la pensava diversamente. A seguito
delle sue spedizioni si era convinto dell’esistenza, nel cuore dell’Amazzonia,
di una vera e propria città, che lui battezzò “Z”, e si mise alla caccia dei
sui resti attratto non tanto dal mito dell’Eldorado e delle sue favolose
ricchezze, quanto dal desiderio autentico di scrivere «un nuovo capitolo della
storia dell’uomo». Perché Fawcett non era affatto un avventuriero pazzo,
come una lettura superficiale potrebbe far credere: godeva infatti di una
solida formazione scientifica, di un senso della disciplina e di un approccio
metodico ad ogni spedizione frutto della sua formazione militare; qualità che,
unite ad una resistenza fisica “tale cha
alcuni dei suoi colleghi arrivarono addirittura ad affermare che fosse immune
alla morte” e alla sua capacità di instaurare con
le tribù amazzoniche un dialogo nutrito da un crescente rispetto per loro[1],
decisamente anomalo per l’epoca[2],
lo rendevano la perfetta incarnazione dell’esploratore britannico “come
vorremmo che fosse”, alimentando così il mito del buon europeo portatore di vera
civiltà, non meno affascinante del mito speculare a questo, ovvero il mito del
buon selvaggio[3].
Ad alimentare il mito personale
del colonnello Fawcett fu poi la sua misteriosa scomparsa nel fitto della
foresta amazzonica. Il vuoto di informazioni attendibili – peraltro in parte
dovuto allo stesso Fawcett, che, ad un certo punto, tentò di depistare i suoi
colleghi esploratori e potenziali concorrenti - ha alimentato una miriade di ipotesi
fantasiose, ottimo materiale per i romanzieri, e numerose spedizioni di ricerca; ma ciò che rende ancora attuale la figura di
questo grande esploratore è soprattutto il fatto che le scoperte archeologiche degli
ultimi anni rivelano quanto fosse vicino alla verità[4].
C’erano veramente città immerse nella foresta ed “erano proprio il tipo di
strade e villaggi di cui avevano parlato i conquistadores spagnoli quando
avevano visitato l’Amazzonia, quelli ai quali Fawcett aveva così ardentemente
creduto e che gli scienziati del XX secolo avevano etichettato come miti”. Fawcett aveva gli occhi per vedere il passato dei popoli
dell’Amazzonia, ma non aveva gli strumenti per sapere cosa cercare, non rovine
di palazzi e monumenti in pietra, ma tracce nel terreno di antichi
insediamenti.
D’altra parte, le convinzioni di
Fawcett erano maturate nel corso di vent’anni di esplorazioni in Amazzonia,
durante i quali aveva raccolto molti indizi a conferma della sua teoria:
-
Innanzitutto, sin dal 1914 “intuì che le tribù
più ricche e popolose si trovavano in regioni lontane dai fiumi principali,
ossia lontane da dove molti europei e cacciatori di schiavi erano arrivati”.
Erano tribù che, suscitando il suo stupore, “davano prova di una cultura
sofisticata” e, spesso, “raccontavano leggende circa i loro antenati che
vivevano in insediamenti anche più imponenti e belli”.
-
Su rocce nella giungla trovò “qualcosa che
assomigliava ad antiche pitture e incisioni di figure umane e animali[5]” e notò che su ogni alturas,
ossia collinette che si innalzano sulla piana della foresta, si potevano
facilmente trovare nel terreno dei manufatti, ad esempio frammenti di ceramica,
e, inoltre, “queste alturas erano
collegate da una sorta di tracciati allineati geometricamente. Sembravano, e ci
avrebbe quasi giurato, «sentieri» e «strade sopraelevate»”.
-
Le cronache dei conquistadores “riferivano
concordi di popolazioni indigene numerose e dense”, con vere e proprie città
costruite all’interno della foresta. In particolare, Fawcett
era riuscito a scovare un manoscritto, ora conservato presso la Biblioteca
Nazionale di Rio de Janeiro, intitolato «Relazione
storica di una grande, antichissima città nascosta […] scoperta nell’anno 1753»,
che “considerava l’elemento determinante a riprova della sua teoria della
civiltà amazzonica perduta”.
Fawcett pensava
che quest’ultima città si trovasse verso lo stato di Bahia, mentre Z, la città
“monumentale che cercava, e magari anche qualche traccia della sua popolazione
originaria, si celasse nelle foreste del fiume Xingu, nel Mato Grosso
brasiliano”. Più precisamente, “era arrivato alla conclusione che nella
parte meridionale del bacino amazzonico, tra gli affluenti Tapajós e Xingu, si
trovassero «le più significative rovine di una civiltà antica»”.
Fawcett era comunque un uomo del
suo tempo e “non riuscì mai ad affrancarsi da quel che lo
storico Dane Kennedy definì «labirinto mentale della razza»” né “riuscì
mai a spiccare il salto finale degno di un antropologo moderno e accettare che
civiltà complesse potessero svilupparsi in maniera indipendente le une dalle
altre”. D’altra parte, “ancora all’inizio del XX secolo, l’allora
popolare scuola diffusionista degli antropologi continuava a sostenere che,
semmai fosse esistita un’antica civiltà sofisticata in Sud America, le sue
origini sarebbero state occidentali o vicino-orientali, da ricercare nelle
tribù perdute di Israele, per esempio, o tra i marinai fenici”.
Interessante è anche un altro aspetto
di questo libro, ossia la percezione dell’ecosistema amazzonico da parte di noi
bianchi. A questo proposito, sembra che l’impatto iniziale di ogni occidentale
posto di fronte all’immensità amazzonica sia sempre pressoché identico. Una
sensazione debilitante di costante minaccia per la propria vita, immersi
nell’atmosfera ovattata dell’appiccicaticcio clima equatoriale, una cortina di
umidità al cui interno gli incubi peggiori paiono materializzarsi, spingendo
chi vi si avventura alla follia o ad una morte atroce.
Facendo riferimento alla sua prima
esplorazione dell’Amazzonia, tra il 1906 e il 1907, quando si inoltrò nella
foresta tra Bolivia e Brasile, Fawcett scrive del suo viaggio lungo un «fiume
così tranquillo, ma così minaccioso, con quella corrente tanto debole, e quelle
acque profonde che sembravano condurci verso ogni sorta di sciagure». E ancora:
«I demoni dei fiumi amazzonici pervadevano ogni cosa; erano là, nel cielo
basso, nella pioggia a catinelle e nelle cupe pareti della selva». Insomma,
in Amazzonia “il regno animale «si contrappone all’uomo come in nessun’altra
parte del mondo»”: questa almeno è l’impressione iniziale, motivata già
dal semplice fatto che la sovrabbondanza di flora e fauna non corrisponde
affatto ad una immediata disponibilità di cibo commestibile e non
è facile abituarsi “a un senso di fame così intenso, costante, oppressivo, che
rode dentro, mina la mente e il fisico”, mentre i suoni della selva non
si interrompono mai e sembrano martellarti fin nel più profondo della coscienza.
Fawcett, grazie alla sua
straordinaria apertura mentale, ebbe ben presto modo di comprendere che questa
visione dell’Amazzonia non era reale, bensì frutto della nostra ignoranza e
della nostra supponenza di occidentali maldisposti ad accettare di imparare
dagli indios come si vive nella foresta amazzonica. Lui, al contrario, desiderò
fin dall’inizio stabilire un contatto con gli indios e appena ne ebbe
l’occasione, mettendo seriamente a rischio la propria vita, avvicinò una tribù
di Guarayos resa ostile dalla precedenti esperienze con gli occidentali e seppe
farseli amici. Ebbe così modo di scoprire che la loro vita era perfettamente integrata
con la foresta, di cui possedevano una conoscenza senza pari: ogni albero,
fiore o animale ospitati nel tratto di foresta che costituiva il loro
territorio non aveva segreti per loro e sapevano con assoluta tranquillità
trovarne un esemplare in caso di necessità, e da ciò che li circondava, da
quell’inferno verde che falcidiava e torturava gli esploratori occidentali
ricavavano senza eccessiva fatica tutto ciò che occorreva loro – cibo, farmaci
portentosi, veleni per la caccia e la guerra, materiale per le armi e gli
strumenti della vita quotidiana, fibre per i capi di abbigliamento e pitture
per gli elementi decorativi.
[1]
Il suo apprezzamento per la civiltà occidentale si fece ancor più critico a seguito
della sua partecipazione alla Prima guerra mondiale, tanto che, a conclusione
di una sua lettera pubblicata in un giornale inglese, scriveva: «Dopo aver
visto certe cose, Civiltà è una parola senza senso. Questa guerra è stata
un’insana esplosione dei più bassi istinti umani».
E fu a seguito di quegli
orrori che Fawcett “cercò sollievo nello spiritismo e nei riti occulti”, avvicinandosi alle teorie di Madame
Blavatsky. Tendenza che la crescente avversità degli ambienti accademici alle
sue teorie accrebbe ancor più, influenzando anche
la sua visione di Z.
[2]
Fawcett criticò aspramente gli atti di violenza gratuita compiuti spesso dagli
esploratori del bacino amazzonico e si comportò sempre, ad eccezione di un solo episodio, in modo esattamente opposto a come ci si poteva aspettare,
cercando un contatto pacifico con gli indios che, di volta in volta, incontrava. In questo quadro si inserisce anche il suo rispetto per
gli animali.
[3]
A queste doti vanno aggiunte l’insofferenza per la debolezza fisica e
psicologica di molti suoi compagni di fronte alle avversità della foresta, che
questi percepivano come una sua inumana spietatezza, anche perché il suo
entusiasmo lo portava a marciare senza sosta fino al limite delle proprie
energie, spinto dall’ingordigia di posti nuovi e inesplorati (infatti i suoi
migliori compagni furono quei pochi dotati della sua stessa resistenza fisica
ma capaci di imporre dei limiti a questo suo inarrestabile entusiasmo);
l’apprezzamento per la musica come salvezza anche nella foresta dalla pazzia
della solitudine.
[4]
L’Autore illustra, in particolare, le ricerche condotte da Michael Heckenberger, archeologo dell’Università della Florida,
proprio nella zona in cui Fawcett scomparve per sempre, ossia il remoto Xingu. Lo stesso Heckenberger
si dice affascinato dalla figura dell’esploratore inglese, sottolinea che
“anche così, con la sua preparazione in qualche modo dilettantesca, andò avanti
e fu in grado di vedere le cose in modo più chiaro di molti studiosi di
professione” e spiega perché Fawcett non poteva trovare la mitica
Z.: «Non ce n’è molta di pietra, nella selva, e gran parte degli insediamenti
era costruita con materiale organico, come legno e palme, e terrapieni, tutta
roba che si decompone».
[5]
Scoperte simili furono fatte anche dalla spedizione condotta da Alexander
Hamilton Rice, suo principale contendente, lungo il Casiquiare, canale naturale
che collega i sistemi fluviali dell’Orinoco e del Rio delle Amazzoni, nel 1920.
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