domenica 18 gennaio 2015

Recensione a TOLSTOJ, I racconti di Sebastopoli, Ed. Garzanti.



“Eroe del racconto, eroe che io amo con tutta l’anima e che ho cercato di riprodurre in tutta la sua bellezza, e che sempre è stato, è e sarà meraviglioso, eroe del mio racconto è la verità”.

La guerra di Crimea è uno di quei conflitti minori dell’Ottocento di cui la maggior parte di noi non ricorda con precisione le origini storiche, le forze in campo o le conseguenze; ci resta soltanto un vago ricordo legato alla nostra storia risorgimentale
Abbiamo tutti sentito parlare della guerra di Crimea, quantomeno ne abbiamo un vago ricordo, se non altro perché quel conflitto ha rappresentato uno snodo cruciale del nostro Risorgimento e, di conseguenza, un punto fisso dei programmi scolastici di insegnamento della storia da una generazione all’altra, fino ai giorni nostri. Ricordiamo magari che fu una tappa del nostro processo di unificazione nazionale, la associamo alla figura di Cavour e al fatto che i morti italiani in quelle terre lontane furono la moneta con cui la ragion di stato sabauda pagò il sostegno di alcune grandi potenze (Francia e Inghilterra) nella nostra lotta contro l’Impero austro-ungarico.
Ma a noi italiani è mancato un narratore capace di superare l’immediatezza di quegli eventi  e di registrarne il contenuto universale ed eterno. Tra le fila dello schieramento avversario era invece presente un giovane ufficiale, tale Lev Nikolaevič Tolstoj, che, per nostra fortuna, non andò incontro al destino di tanti altri suoi coetanei sui bastioni di Sebastopoli.
Il suo sguardo partecipe registrò, da un lato, l’ammirazione per il popolo russo - la cui forza nasce da due caratteristiche essenziali: “la semplicità e l’ostinazione” - e, dall’altro, l’insofferenza per il mondo dell’aristocrazia russa, composta da individui il cui unico movente pare essere la vanità (“Vanità, vanità, nient’altro che vanità, perfino sull’orlo della fossa e tra persone pronte ad affrontare la morte per un nobile ideale”), il desiderio di innalzarsi su una scala sociale che pare avere sempre un gradino di troppo, modulando disprezzo e adulazione, affettazione e genuflessione a seconda della persona che si ha di fronte o accanto a sè. Uomini che paiono usciti dall’universo barocco della corte del Re Sole, incapaci di vedere ciò che realmente accade intorno a loro, incatenati ad un mondo di apparenze, tanto più vogliosi di esibire il loro potere e la loro ricchezza quanto più immeritatamente quelli sono stati conseguiti; coscienze asfittiche impegnate a praticare un ottuso machiavellismo per avvicinarsi di un passo alla vetta della società, e totalmente indifferenti al mondo che sta ai loro piedi: “«[…] ci mancherebbe, in una tale situazione, vivere anche nel fango e senza comodità». «E come fanno allora i nostri ufficiali di fanteria», disse Kalugin, «che vivono con i soldati nei bastioni, nel rifugio, e mangiano il rancio dei soldati, come se la passano loro?» «Ecco, questo proprio non lo capisco e, devo ammetterlo, non riesco a credere», disse Gal’cin, «che degli uomini con indosso biancheria sporca, che vivono in mezzo ai pidocchi e senza lavarsi le mani, possano essere valorosi. […]». Ufficiali che pure partecipano agli scontri, magari mostrando anche coraggio, ma che sempre affrontano la battaglia come fosse un giro di roulette, l’avventura di un momento, ritraendosene inorriditi e disgustati appena il vero volto della guerra comincia a mostrarsi loro: “Ma Kalugin non capì che egli, in tutto, aveva trascorso appena cinquanta ore sui bastioni, mentre il capitano aveva vissuto là sei mesi. Inoltre stimolava Kalugin la vanità, il desiderio di brillare, la speranza di decorazioni, di procurarsi buona fama e il piacere del rischio; il capitano aveva già passato tutto questo”. “Al contrario, Kalugin e il colonnello sarebbero stati disposti ad assistere ogni giorno a un fatto del genere, solo per ricevere ogni volta la sciabola d’oro e il grado di general maggiore”.
Tolstoj mette così in luce la frattura che attraversa la società russa del suo tempo, ciò che la condurrà alla sconfitta e al crollo definitivo: “La disciplina e le sue regole, la subordinazione, è gradita, come tutti i rapporti fissati dalle leggi, solamente quando è fondata, oltre che sulla coscienza comune della sua necessità, sulla virtù, riconosciuta da parte dell’inferiore, di una superiorità basata sull’esperienza, sul valor militare o addirittura semplicemente sull’integrità morale; ma quando la disciplina è basata, come spesso accade qui da noi, sulla casualità e sul denaro, essa si tramuta sempre in arroganza da una parte, in invidia nascosta e in rabbia dall’altra e, invece dell’influsso benefico prodotto dall’unione delle masse in un tutt’uno, ottiene l’effetto contrario. L’uomo che non senta dentro di sé la forza di ispirare rispetto con la virtù interiore, istintivamente teme di assomigliare ai subordinati e cerca, dandosi importanza con atteggiamenti esteriori, di allontanare da sé le critiche. I subordinati, vedendo solo questo lato esteriore, che li offende, ritengono, in gran parte a torto, che al di là di esso non ci sia più niente di buono”. Parole, queste, che parlano di un tempo lontano e di tutt'altra società, ma che mostrano qualcosa che i nostri occhi sanno di avere visto nella nostra Italia del XXI secolo. L'unica differenza - e, forse, l'unica cosa che può salvarci - è la democrazia, che là non aveva voce, mentre qui ancora sopravvive...