Il protagonista di questo rigenerante racconto è un bambino che, alla
tenera età di cinque anni, si ritrova orfano dei propri genitori e –
siamo all’inizio degli anni ’30, quelli della Grande Depressione – va a
vivere con i nonni. Ma i nonni non sono tipi qualunque, dato che “il
nonno era mezzo Cherokee e nonna lo era tutta”.
Entriamo qui in
contatto con un tòpos della cultura americana soprattutto novecentesca:
la celebrazione della cultura dei nativi americani, seguita al loro
sterminio, da parte di esponenti di quella stessa civiltà che ne aveva
compiuto l’eliminazione fisica. Dietro il velo di questa perdurante
ammirazione si nasconde quindi un gigantesco senso di colpa che mai
troverà soddisfazione e qualcosa di non detto che pesa come un macigno,
come una domanda che non si ha mai il coraggio di pronunciare ma che
occupa la mente di tutti: se gli innumerevoli popoli dei nativi
americani fossero ancora vitali come nell’Ottocento e occupassero vaste
porzioni del Nordamerica, i bianchi, i Wasp o gli yankees, come
preferite chiamarli, sarebbero ugualmente così ben disposti verso di
loro? Perché solo nel caso di una risposta affermativa tutta questa
fascinazione per gli indiani d’America da parte di noi bianchi si può
definire sincera e i lori insegnamenti possono mettere radici nella
nostra identità culturale e morale, anziché ridursi ad orpello mentale
di una civiltà che ha sempre bisogno di rifarsi una verginità, per
potersi dire: quanto siamo bravi, e superiori a tutti gli altri, noi che
sappiamo ammettere le nostre colpe, che ricordiamo e celebriamo i
popoli da noi sconfitti chiamando Tomahawk e Apache le nostre migliori
armi da guerra, usate per altri sterminii, in una catena senza fine di
violenza, stupidità e autoassoluzione.
Per questo mi accosto sempre
con una certa diffidenza ad opere di autori occidentali che abbiano i
nativi americani e la loro cultura come protagonisti, ho sempre la
sensazione che leggere le pagine di libri come questo sia un atto
vagamente sacrilego, nei confronti di un popolo il cui perdono non
abbiamo ancora veramente cercato.
Detto questo, il libro di Forrest
Carter è veramente bello e narra, capitolo dopo capitolo, l’educazione
alla cultura Cherokee del giovane protagonista. Gli insegnamenti che,
amorevolmente, gli vengono impartiti dai nonni hanno sempre la loro
fonte originaria nell’osservazione partecipe della natura o, per meglio
dire, di Mon-o-lah, la madre terra, la cui voce giunge a noi attraverso i
suoi figli: Tal-con il falco, Pa-koh il giaguaro, Ti-bi l’ape, Tel-qui
il tacchino e tutti gli altri esseri viventi, i quali dicono a chi vuol
ascoltare che tutti siamo legati l’uno all’altro, che ogni singolo
essere vivente, uomo compreso, esiste in relazione a tutti gli altri
esseri viventi che compongono il creato. Questo insegnamento è alla base
della Via del Cherokee.
Pagina dopo pagina, attraverso il racconto
di Piccolo Albero, ci immergiamo sempre più in questa vita vissuta in
piena armonia con la natura circostante, in questo caso i boschi di
montagna; presi per mano dal piccolo protagonista, veniamo condotti
lungo la Via e ci viene spiegato che ogni persona ha una mente del
corpo, legata alle necessità della vita fisica, e quindi egoistica, e
una mente dello spirito, che è poi “quel che [di noi] sopravvive quando
tutto il resto muore”, quella parte di noi che ci consente di
comprendere veramente gli altri esseri viventi, di parlare il linguaggio
degli animali e financo di sentire i pensieri degli alberi, “ma è
impossibile spalancarle la porta finché non la smetti di essere avido e
meschino con la tua mente del corpo”, perché “com’è ovvio, comprensione e
amore sono tutt’uno”.
E così capiamo anche quanto ogni Cherokee
fosse parte della terra che, sotto i mocassini, sentiva “spingere e
gonfiarsi, ondeggiare e cedere… e sentivo le radici che ne venavano il
corpo e la vita dell’acqua-sangue, profonda dentro di lei”. E non sembra
più un’esagerazione retorica l’affermazione che “mentre il Cherokee si
allontanava dalle sue montagne, aveva cominciato a morire”, né pare più
eccessivo sostenere che l’uomo bianco, sradicandosi dalla sua terra, ha
ottenuto molte conquiste ma altrettanto ha perduto, in particolare nella
capacità di sentire e comprendere. Così la parola dei Cherokee sembra
destinata a perdersi, non essendoci più nessuno a pronunciarla né
qualcuno ancora in grado di ascoltarla. E la Via dei Cherokee sembra
finire in un cimitero. Oppure no?
P.S. Naturalmente, c’è molto
altro in questo splendido racconto. Ci si può anche divertire a
raccogliere tante annotazioni pratiche di vita nei boschi, ricavandone
una sorta di Manuale delle Giovani Marmotte Indiane!
mercoledì 23 luglio 2014
PRESENTAZIONE - parte seconda
Perché intitolare questo blog il solco della modernità? Un’intuizione che non ho voluto abbandonare, un’espressione che non mi si è più staccata dalla mente come una maglietta bagnata sulla pelle.
Il solco della
modernità è il segno che l’epoca in cui viviamo traccia sulle nostre vite. E’
un dato ineluttabile, è l’orizzonte della civiltà entro cui siamo destinati a
vivere, oltre il quale nulla esiste, da cui non è concepibile fuga alcuna,
poiché al di fuori di queste coordinate psichiche e culturali tutto è caos e
follia.
E’ una gabbia, certo, ma in eterno movimento lungo questo
solco che tutti noi contribuiamo a tracciare.
Esistono epoche in cui molti, tutti insieme, spinti da un
intento comune, possono credere di poter deviare il percorso che questo solco
pare predestinato a seguire, epoche in cui l’orizzonte si amplia
inaspettatamente e tutto pare possibile, financo, volendolo, invertire il
percorso e tornare sui propri passi. Sono momenti rari, tragici il più delle
volte, in cui interessi difformi convergono nella stessa direzione,
concentrandosi in picchi di energia psichica, pennacchi che disperdono presto i
singoli filamenti di cui sono composti in innumerevoli direzioni.
Di norma, invece, gli eroi solitari, privi di un grande
seguito, che pretendono, alla stregua di novelli Titani, di sfidare gli Dei
sembrano essere in numero troppo esiguo per raggiungere quella soglia critica
oltrepassata la quale i sogni palingenetici e le istanze di cambiamento trascolorano
nella realtà e una morsa feroce devia l’Aratro della Vita.
D’altra parte, però, modificarne il percorso di un angolo
insignificante è più che sufficiente a far sì che nel lungo termine si crei una
distanza enorme dal percorso prestabilito. Ed è proprio questa la segreta
consapevolezza che dona ad ogni singolo ribelle, per quanto isolato nel mondo
delle proprie idee, inascoltato o rinchiuso in una gabbia di cemento e metallo,
la forza di continuare a lottare senza lasciarsi trascinare inerte sul fondo di
questo solco dalla corrente della Storia, ma offrendo resistenza con un
movimento laterale lungo le pareti scoscese che franano sotto il suo stesso
peso, cercando di spingersi con fatica immane fin sul bordo di questo solco, là
dove l’orizzonte è più ampio e al tempo stesso si fa più oscuro.
Ecco, questa è l’immagine che è emersa sulla superficie
della mia consapevolezza pensando a un titolo da dare a questo blog e qui la
condivido con voi.
martedì 8 luglio 2014
RECENSIONE di Francisco Coloane, Terra del Fuoco, Ed. Guanda.
RECENSIONE di Francisco Coloane, Terra del Fuoco, Ed. Guanda.
In questi racconti dello scrittore cileno Francisco Coloane
i personaggi sembrano prendere vita dalla terra che calpestano, quella Terra
del Fuoco che costituisce l’estremità meridionale della Patagonia e, quindi, del
continente americano. Là, in quelle terre lontane, l’Uomo e la Natura
interagivano senza che l’uno prevalesse sull’altra, in quell’estrema propaggine
delle terre australi ancora non si era interrotto il dialogo tra l’uomo e l’ambiente
naturale che lo ospitava; al contrario, la Natura, con il suo movimento
ciclico, la solitudine dei suoi paesaggi, l’irrefrenabile energia delle sue
manifestazioni, la sua capacità di essere accogliente e innocentemente
violenta, impudica e ricolma di sacralità fa da contrappunto ai pensieri degli
uomini , alle pulsioni profonde che li smuovono e motivano le loro azioni, alle
correnti interiori che scolpiscono con forza o plasmano con delicatezza le loro
anime, alla misera linearità del loro tempo, che li espone all’ossessione
peculiare, quella per l’idea della Fine, alla sfiancante rincorsa di un
orizzonte di pienezza e serenità che sanno non essere loro concesso in questa
vita.
Infatti, la capacità di accogliere in sé la Natura, di
“portare la civiltà nella natura e la natura nella civiltà” è il vero
Eden che l’uomo continua a sognare ma che rappresenta ormai un traguardo
irraggiungibile, poiché non è davanti a sé, ma alle proprie spalle, appartiene
ad uno condizione, lo stato di natura, al quale siamo sfuggiti ormai
definitivamente. Non c’è possibilità di tornare sui propri passi, se non al
prezzo di perdersi. Come fa dire ad uno dei suo alter ego letterari: “la natura
prima ti ‘disintegra’, e poi ti ‘integra’ in lei come uno dei suoi elementi.
Nella prima fase ci si sente annichiliti, alcuni periscono, mentre nella
seconda si rinasce con un nuovo vigore; è così che, a volte, seleziona e
distrugge ciò che più le conviene. […] Fu come se avessi cessato di essere me
stesso. […] tutto era lì, nella natura, di fronte alla quale fino ad allora mi erano
mancati occhi, sensi, mente, per vedere, ascoltare e riflettere”.
La natura è protagonista, come in London, al quale Coloane è
stato paragonato; ma in questi suoi racconti il tono non è mai epico, piuttosto
lo si può definire crepuscolare, come il sole basso di queste terre estreme. Nella
Patagonia di Coloane la sottile crosta della civiltà era spaccata e
attraversata da solchi profondi, come terra bruciata dal sole, lì ogni essere
umano (o, meglio, ogni uomo bianco), di
fronte ad una natura selvaggia e, spesso, ad una sconfinata solitudine, si
mostrava brutale, laconico, fragile e tagliente quanto il paesaggio che lo
circondava e, soprattutto, poteva capitare di scoprire che, “per quanto l’uomo
fosse arrivato a dominare la natura, non riusciva ancora a dominare la propria…”. A dimostrarlo è più che sufficiente la violenza sconfinata e
irredimibile nei confronti di chi ha voce né diritti, ossia le sparute comunità
di indios che lì ancora sopravvivevano e la natura stessa, violentata non solo
metaforicamente.
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