mercoledì 23 luglio 2014

recensione a FORREST CARTER, Piccolo Albero, Ed. Salani

Il protagonista di questo rigenerante racconto è un bambino che, alla tenera età di cinque anni, si ritrova orfano dei propri genitori e – siamo all’inizio degli anni ’30, quelli della Grande Depressione – va a vivere con i nonni. Ma i nonni non sono tipi qualunque, dato che “il nonno era mezzo Cherokee e nonna lo era tutta”.
Entriamo qui in contatto con un tòpos della cultura americana soprattutto novecentesca: la celebrazione della cultura dei nativi americani, seguita al loro sterminio, da parte di esponenti di quella stessa civiltà che ne aveva compiuto l’eliminazione fisica. Dietro il velo di questa perdurante ammirazione si nasconde quindi un gigantesco senso di colpa che mai troverà soddisfazione e qualcosa di non detto che pesa come un macigno, come una domanda che non si ha mai il coraggio di pronunciare ma che occupa la mente di tutti: se gli innumerevoli popoli dei nativi americani fossero ancora vitali come nell’Ottocento e occupassero vaste porzioni del Nordamerica, i bianchi, i Wasp o gli yankees, come preferite chiamarli, sarebbero ugualmente così ben disposti verso di loro? Perché solo nel caso di una risposta affermativa tutta questa fascinazione per gli indiani d’America da parte di noi bianchi si può definire sincera e i lori insegnamenti possono mettere radici nella nostra identità culturale e morale, anziché ridursi ad orpello mentale di una civiltà che ha sempre bisogno di rifarsi una verginità, per potersi dire: quanto siamo bravi, e superiori a tutti gli altri, noi che sappiamo ammettere le nostre colpe, che ricordiamo e celebriamo i popoli da noi sconfitti chiamando Tomahawk e Apache le nostre migliori armi da guerra, usate per altri sterminii, in una catena senza fine di violenza, stupidità e autoassoluzione.
Per questo mi accosto sempre con una certa diffidenza ad opere di autori occidentali che abbiano i nativi americani e la loro cultura come protagonisti, ho sempre la sensazione che leggere le pagine di libri come questo sia un atto vagamente sacrilego, nei confronti di un popolo il cui perdono non abbiamo ancora veramente cercato.
Detto questo, il libro di Forrest Carter è veramente bello e narra, capitolo dopo capitolo, l’educazione alla cultura Cherokee del giovane protagonista. Gli insegnamenti che, amorevolmente, gli vengono impartiti dai nonni hanno sempre la loro fonte originaria nell’osservazione partecipe della natura o, per meglio dire, di Mon-o-lah, la madre terra, la cui voce giunge a noi attraverso i suoi figli: Tal-con il falco, Pa-koh il giaguaro, Ti-bi l’ape, Tel-qui il tacchino e tutti gli altri esseri viventi, i quali dicono a chi vuol ascoltare che tutti siamo legati l’uno all’altro, che ogni singolo essere vivente, uomo compreso, esiste in relazione a tutti gli altri esseri viventi che compongono il creato. Questo insegnamento è alla base della Via del Cherokee.
Pagina dopo pagina, attraverso il racconto di Piccolo Albero, ci immergiamo sempre più in questa vita vissuta in piena armonia con la natura circostante, in questo caso i boschi di montagna; presi per mano dal piccolo protagonista, veniamo condotti lungo la Via e ci viene spiegato che ogni persona ha una mente del corpo, legata alle necessità della vita fisica, e quindi egoistica, e una mente dello spirito, che è poi “quel che [di noi] sopravvive quando tutto il resto muore”, quella parte di noi che ci consente di comprendere veramente gli altri esseri viventi, di parlare il linguaggio degli animali e financo di sentire i pensieri degli alberi, “ma è impossibile spalancarle la porta finché non la smetti di essere avido e meschino con la tua mente del corpo”, perché “com’è ovvio, comprensione e amore sono tutt’uno”.
E così capiamo anche quanto ogni Cherokee fosse parte della terra che, sotto i mocassini, sentiva “spingere e gonfiarsi, ondeggiare e cedere… e sentivo le radici che ne venavano il corpo e la vita dell’acqua-sangue, profonda dentro di lei”. E non sembra più un’esagerazione retorica l’affermazione che “mentre il Cherokee si allontanava dalle sue montagne, aveva cominciato a morire”, né pare più eccessivo sostenere che l’uomo bianco, sradicandosi dalla sua terra, ha ottenuto molte conquiste ma altrettanto ha perduto, in particolare nella capacità di sentire e comprendere. Così la parola dei Cherokee sembra destinata a perdersi, non essendoci più nessuno a pronunciarla né qualcuno ancora in grado di ascoltarla. E la Via dei Cherokee sembra finire in un cimitero. Oppure no?
P.S. Naturalmente, c’è molto altro in questo splendido racconto. Ci si può anche divertire a raccogliere tante annotazioni pratiche di vita nei boschi, ricavandone una sorta di Manuale delle Giovani Marmotte Indiane!

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