martedì 8 luglio 2014

RECENSIONE di Francisco Coloane, Terra del Fuoco, Ed. Guanda.



RECENSIONE di Francisco Coloane, Terra del Fuoco, Ed. Guanda.
In questi racconti dello scrittore cileno Francisco Coloane i personaggi sembrano prendere vita dalla terra che calpestano, quella Terra del Fuoco che costituisce l’estremità meridionale della Patagonia e, quindi, del continente americano. Là, in quelle terre lontane, l’Uomo e la Natura interagivano senza che l’uno prevalesse sull’altra, in quell’estrema propaggine delle terre australi ancora non si era interrotto il dialogo tra l’uomo e l’ambiente naturale che lo ospitava; al contrario, la Natura, con il suo movimento ciclico, la solitudine dei suoi paesaggi, l’irrefrenabile energia delle sue manifestazioni, la sua capacità di essere accogliente e innocentemente violenta, impudica e ricolma di sacralità fa da contrappunto ai pensieri degli uomini , alle pulsioni profonde che li smuovono e motivano le loro azioni, alle correnti interiori che scolpiscono con forza o plasmano con delicatezza le loro anime, alla misera linearità del loro tempo, che li espone all’ossessione peculiare, quella per l’idea della Fine, alla sfiancante rincorsa di un orizzonte di pienezza e serenità che sanno non essere loro concesso in questa vita.
Infatti, la capacità di accogliere in sé la Natura, di “portare la civiltà nella natura e la natura nella civiltà”  è il vero Eden che l’uomo continua a sognare ma che rappresenta ormai un traguardo irraggiungibile, poiché non è davanti a sé, ma alle proprie spalle, appartiene ad uno condizione, lo stato di natura, al quale siamo sfuggiti ormai definitivamente. Non c’è possibilità di tornare sui propri passi, se non al prezzo di perdersi. Come fa dire ad uno dei suo alter ego letterari: “la natura prima ti ‘disintegra’, e poi ti ‘integra’ in lei come uno dei suoi elementi. Nella prima fase ci si sente annichiliti, alcuni periscono, mentre nella seconda si rinasce con un nuovo vigore; è così che, a volte, seleziona e distrugge ciò che più le conviene. […] Fu come se avessi cessato di essere me stesso. […] tutto era lì, nella natura, di fronte alla quale fino ad allora mi erano mancati occhi, sensi, mente, per vedere, ascoltare e riflettere”.
La natura è protagonista, come in London, al quale Coloane è stato paragonato; ma in questi suoi racconti il tono non è mai epico, piuttosto lo si può definire crepuscolare, come il sole basso di queste terre estreme. Nella Patagonia di Coloane la sottile crosta della civiltà era spaccata e attraversata da solchi profondi, come terra bruciata dal sole, lì ogni essere umano (o, meglio, ogni  uomo bianco), di fronte ad una natura selvaggia e, spesso, ad una sconfinata solitudine, si mostrava brutale, laconico, fragile e tagliente quanto il paesaggio che lo circondava e, soprattutto, poteva capitare di scoprire che, “per quanto l’uomo fosse arrivato a dominare la natura, non riusciva ancora a dominare la propria…”. A dimostrarlo è più che sufficiente la violenza sconfinata e irredimibile nei confronti di chi ha voce né diritti, ossia le sparute comunità di indios che lì ancora sopravvivevano e la natura stessa, violentata non solo metaforicamente.

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