RECENSIONE di Francisco Coloane, Terra del Fuoco, Ed. Guanda.
In questi racconti dello scrittore cileno Francisco Coloane
i personaggi sembrano prendere vita dalla terra che calpestano, quella Terra
del Fuoco che costituisce l’estremità meridionale della Patagonia e, quindi, del
continente americano. Là, in quelle terre lontane, l’Uomo e la Natura
interagivano senza che l’uno prevalesse sull’altra, in quell’estrema propaggine
delle terre australi ancora non si era interrotto il dialogo tra l’uomo e l’ambiente
naturale che lo ospitava; al contrario, la Natura, con il suo movimento
ciclico, la solitudine dei suoi paesaggi, l’irrefrenabile energia delle sue
manifestazioni, la sua capacità di essere accogliente e innocentemente
violenta, impudica e ricolma di sacralità fa da contrappunto ai pensieri degli
uomini , alle pulsioni profonde che li smuovono e motivano le loro azioni, alle
correnti interiori che scolpiscono con forza o plasmano con delicatezza le loro
anime, alla misera linearità del loro tempo, che li espone all’ossessione
peculiare, quella per l’idea della Fine, alla sfiancante rincorsa di un
orizzonte di pienezza e serenità che sanno non essere loro concesso in questa
vita.
Infatti, la capacità di accogliere in sé la Natura, di
“portare la civiltà nella natura e la natura nella civiltà” è il vero
Eden che l’uomo continua a sognare ma che rappresenta ormai un traguardo
irraggiungibile, poiché non è davanti a sé, ma alle proprie spalle, appartiene
ad uno condizione, lo stato di natura, al quale siamo sfuggiti ormai
definitivamente. Non c’è possibilità di tornare sui propri passi, se non al
prezzo di perdersi. Come fa dire ad uno dei suo alter ego letterari: “la natura
prima ti ‘disintegra’, e poi ti ‘integra’ in lei come uno dei suoi elementi.
Nella prima fase ci si sente annichiliti, alcuni periscono, mentre nella
seconda si rinasce con un nuovo vigore; è così che, a volte, seleziona e
distrugge ciò che più le conviene. […] Fu come se avessi cessato di essere me
stesso. […] tutto era lì, nella natura, di fronte alla quale fino ad allora mi erano
mancati occhi, sensi, mente, per vedere, ascoltare e riflettere”.
La natura è protagonista, come in London, al quale Coloane è
stato paragonato; ma in questi suoi racconti il tono non è mai epico, piuttosto
lo si può definire crepuscolare, come il sole basso di queste terre estreme. Nella
Patagonia di Coloane la sottile crosta della civiltà era spaccata e
attraversata da solchi profondi, come terra bruciata dal sole, lì ogni essere
umano (o, meglio, ogni uomo bianco), di
fronte ad una natura selvaggia e, spesso, ad una sconfinata solitudine, si
mostrava brutale, laconico, fragile e tagliente quanto il paesaggio che lo
circondava e, soprattutto, poteva capitare di scoprire che, “per quanto l’uomo
fosse arrivato a dominare la natura, non riusciva ancora a dominare la propria…”. A dimostrarlo è più che sufficiente la violenza sconfinata e
irredimibile nei confronti di chi ha voce né diritti, ossia le sparute comunità
di indios che lì ancora sopravvivevano e la natura stessa, violentata non solo
metaforicamente.
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