venerdì 20 giugno 2014

recensione di T. Todorov, La conquista dell'America. Il problema dell'"altro", Einaudi Ed.



L’argomento centrale di questo libro è il rapporto dell’uomo occidentale con l’alterità, studiato attraverso quella che Todorov considera una storia esemplare, ossia una storia vera qual è la Conquista spagnola dell’America, rivista e interpretata alla luce del suo significato più profondo, che è sempre un significato etico. L’intento dell’autore è, infatti, che si ricordi “quel che può accadere se non si riesce a scoprire l’altro. Perché l’altro deve essere scoperto”.
Si faccia caso  alla dedica che l’autore ha inserito a coronamento di questa sua fatica, di cui bisogna veramente essergli grati. Todorov scrive:  “Dedico questo libro alla memoria di una donna maya divorata dai cani”, facendo riferimento ad un episodio minimo, per quanto atroce, di quelli che restano sommersi e schiacciati sotto le macerie della Storia nel suo inarrestabile avanzare e che soltanto uno studioso poteva resuscitare dal resoconto di un cronista della Conquista spagnola. Il riferimento a questa violenza disumana, che in nessun altro modo poteva essere risarcita se non ricordandola e intendendone il significato profondo, illumina quest’opera nel suo complesso e ne fornisce la chiave interpretativa, ricollegando in modo esplicito la riflessione di Todorov ad una genealogia e ad una bibliografia illustre che possiamo racchiudere sotto l’etichetta di “critica della Modernità”: quella donna maya, infatti, non è diversa dalle vittime innocenti che tormentavano la mente di Dostojevskij e rendevano problematico il suo Cristianesimo o dalle innumerevoli vite spezzate cui Solzenicyn, caparbio cronista dell’orrore comunista, ridà volto e nome o, ancora, dalla disumanizzante macchina dello sterminio cui Primo Levi contrappone la lucidità spietata della sua analisi. 
Come questi autori e molti altri hanno saputo mostrare con il loro esempio, fondamentale è non lasciarsi annichilire da questa sofferenza immane, non razionalizzabile - che pare rovesciarsi come una poderosa valanga lungo il pendio della Storia, travolgendo ogni possibilità di comprensione - e, assumendo consapevolmente il ruolo di testimoni del Male nella Storia, affrontare ciò che si deve assolutamente contrastare con gli strumenti che la ragione ci offre. Nel caso della storia della Conquista dell’America, il Male che ha prodotto un vero e proprio genocidio di cui non esistono paragoni si chiarisce – fuoriesce dall’ottusità di cui il Male si ammanta - affrontando il nodo antropologico della relazione con l’Altro. Il libro si articola infatti in quattro parti - rispettivamente intitolate Scoprire, Conquistare, Amare e Conoscere – , di cui le prime due sono quelle storicamente più rilevanti (tanto che i termini “scoperta” e “conquista” dell’America in apparenza racchiudono in sé il pieno significato di queste vicende), mentre le altre due mostrano la strada che soltanto alcuni hanno saputo e voluto percorrere.
La grandezza di Todorov e il valore eccelso di questo saggio risiedono nella capacità dell’autore di non limitarsi ad un’incolore esposizione di fatti e di non lasciarsi irretire dal Male attraverso la fascinazione che esso esercita su chiunque vi posi lo sguardo. Todorov, infatti, non si perde nella morbosa elencazione degli orrori compiuti dagli spagnoli del Cinquecento e nella descrizione di un Male che alcuni vorrebbero assoluto e quindi tanto meno conoscibile quanto più lo si ingigantisce, alla stregua di un esteta che, innamorato di un’opera d’arte, sia affascinato da ogni più piccolo dettaglio, tanto da vedervi un frammento dell’Assoluto dentro al quale sarebbe disposto a perdersi per l’eternità. Niente di tutto questo in Todorov. Come scrive a conclusione del suo lavoro: “E’ piuttosto superficiale accontentarsi di condannare i cattivi conquistadores e compiangere i buoni indiani […] Riconoscere, per alcuni aspetti, la superiorità dei conquistadores non significa farne l’elogio; è necessario analizzare le armi della conquista se si vuole che essa un giorno abbia fine”.
I personaggi chiave dell’epoca li ritroviamo quindi in tutta la loro complessità, con le loro idiosincrasie esposte in piena luce – Cristoforo Colombo sul crinale di una Modernità cui proprio lui apre le porte, con la sua mentalità di uomo del Medioevo guidato da una fede incrollabile e da un dialogo continuo con il suo Dio e una passione altrettanto indomita di esplorazione di questo nostro mondo e di conoscenza (e ammirazione) della Natura, che lo avvicina invece alle generazioni successive di esploratori; Cortés, condottiero lucidissimo - come ci aspetteremmo da un comandante di secoli più vicini a noi (o ancora più lontani) – che dimostra di aver recepito perfettamente la lezione di Machiavelli, portatore di una moralità nuova, già pienamente moderna, desideroso non di conoscere gli indiani, ma di comprenderli per poterli sconfiggere più facilmente, con le armi dell’astuzia –simulazione e dissimulazione - più che con la forza delle armi; Moctezuma, guida suprema di un popolo che, avendo una concezione ciclica del tempo, cerca ossessivamente nel passato i segni per comprendere il presente e dare un senso ad un evento unico come l’arrivo degli Spagnoli, condannandosi alla sconfitta; e poi uomini come Bartolomé de Las Casas e Bernardino de Sahagun che, con approcci diversi, hanno saputo avvicinarsi agli indiani e scoprire in loro una comune appartenenza all’umanità. 
Ma dal confronto/scontro con un’alterità tanto radicale emerge anche l’identità profonda della nostra civiltà, schematizzata in dualismi che l’autore spiega con rara efficacia espositiva, ad esempio le contrapposizioni civiltà narrative/ civiltà interpretative, civiltà del massacro/civiltà del sacrificio, civiltà allocentrica/civiltà egocentrica. Todorov ci ricorda così che “si impara a conoscere l’altro attraverso noi stessi, ma anche a conoscere noi stessi per mezzo dell’altro”.
In conclusione, credo non siano molti i saggi storici che possano vantare una tale densità di contenuti  unita ad una chiarezza espositiva tanto efficace. E’ un testo imprescindibile per comprendere la modernità di cui ancor oggi siamo parte (per quanto si voglia distinguere la nostra contemporaneità dicendo di noi stessi che siamo post-moderni) e soprattutto le contraddizioni insolute che ci trasciniamo con crescente fatica lungo il nostro cammino. E’ una dimostrazione lampante di come lo sguardo obliquo del genio possa offrire una nuova prospettiva su eventi cruciali del nostro passato, di cui mille e mille volte si è scritto e parlato senza mai comprenderne l’essenza. 


recensione a Erri De Luca, Montedidio, Feltrinelli Ed.



Un paio d’anni fa ho avuto il piacere di vedere e ascoltare Erri de Luca al Salone del Libro di Torino e mi sono scoperto ad osservare che il suo modo di parlare sembrava rispecchiarsi molto bene nella sua scrittura: il ritmo regolare del suo eloquio, privo di brusche accelerazioni o di ripensamenti e incertezze, con una sottile musicalità quasi da cantastorie; l’attenzione sempre percepibile per la scelta delle parole; il suo modo di scandire una voce potente e cristallina da attore di teatro e, al tempo stesso, l’apparente fatica di parlare con una lingua che pareva non essere la sua più autentica, quella con cui parla la voce della sua anima.
Anche in questo romanzo breve, infatti, la napoletanità emerge come un dato centrale della sua biografia e proprio dal contrasto tra la lingua italiana e il dialetto napoletano prende avvio una riflessione di carattere antropologico intessuta all’interno della narrazione: l’italiano è una lingua straniera (p.20), lingua del Potere (“con l’italiano uno si difende meglio”, p.7), dunque una lingua distante, fredda, quasi burocratica (“scrivo in italiano perché è zitto e ci posso mettere i fatti del giorno, riposati dal chiasso del napoletano”, p.7),  una lingua incapace di comunicare le passioni che smuovono il napoletano, inabile ad esprimere la diversa sensibilità che lo caratterizza, in definitiva una lingua morta.
Erri descrive un mondo di povertà materiale, ma non spirituale; con i suoi personaggi mette in scena un popolo che vanta un suo codice morale e un suo proprio senso dell’onestà non imposto da un’educazione esteriore (“o si dice in faccia o si sta zitto”, p.71), gente che si prende molta confidenza persino con Dio, intrattiene con lui un rapporto blasfemo, fin quasi a negarne l’esistenza (“Rafaniello dice che a forza di insistere Dio è costretto a esistere, a forza di preghiere si forma il suo orecchio, a forza di lacrime nostre i suoi occhi vedono, a forza di allegria spunta il suo sorriso”, p.57) o l’interessamento per le umane vicende (“Sì, vede tutto [il padreterno], ma se non ci penso io a aggiustare le cose, se ne sta a guardare lo spettacolo”, 50), ci litiga, lo prende a male parole o se lo prende per mano, quasi fosse un pischello cui bisogna insegnare proprio tutto;  ma è un privilegio che questo popolo si è preso per ciò che ha vissuto, perché “ha conosciuto lo schifo” (p.69), ha visto troppo dolore e troppa violenza - una violenza che si sente nel corpo (“la mossa sbagliata di un altro schioda un coperchio e salta fuori il sangue maligno”, p.132) – e conosce l’arroganza della morte (“a Napoli la morte non si vergogna di niente”, p.67).  Una massa di dolore che ti attraversa da parte a parte solo quando ne è vittima un essere non toccato dal peccato, com’è il caso di un asino, nel racconto di don Rafaniello (“il suo grido invece è inutile, gigantesco, riguarda solo lui e Dio, l’uomo è escluso”).
A Napoli ci si deve arrangiare per vivere, perché non c’è Dio cui rivolgersi, né uomo o istituzione che non mettano davanti a tutto i lori interessi particolari, non c’è niente di sicuro cui aggrapparsi né fondamenta solite sulle quali costruire le proprie fortune, non si può nemmeno aver la pretesa di desiderare qualcosa (“L’anno passato non mi sognavo di chiedere questo, è successo da solo, senza un desiderio”, p.97); il caso sembra essere il vero padrone delle vite dei napoletani. Un esempio può chiarire ulteriormente questo aspetto: anche a Napoli, come in ogni dove, c’è chi lavora e chi vive del lavoro altrui, ma non a caso lì si usa sempre il verbo “tenere invece di avere. Avere è presuntuoso, invece tenere lo sa che oggi tiene e domani chi sa se tiene ancora” (p.89).
In questo panorama di macerie, ciò che tiene vivo e vitale, persino allegro, il napoletano è forse la banale consapevolezza che noi non bastiamo a noi stessi, in nessun caso, e che l’Altro può essere la nostra vera ricchezza, ciò che tutto cambia, persino il nostro modo di vedere il mondo, persino la coscienza di noi stessi e della vita (“pare che ci vuole un’altra persona che avvisa”, p.46). Il legame affettivo si configura anche come legame di sopravvivenza e questo lo rende ancora più intenso, indissolubile (“I nostri corpi alleati fanno i nodi”, p.101).
In conclusione, nei romanzi di Erri è così: ogni parola ha un peso specifico molto più alto della media “letteraria”, si nota un rispetto profondo per la sacralità del linguaggio, della parola pronunciata, detta o scritta, e quindi la cura nello scegliere sempre quell’unica parola giusta che attende di essere detta. Di conseguenza, le sue frasi ti sferzano il viso come un vento deciso che trasporta neve e ghiaccio, lasciando sulla pelle una sensazione di freschezza nuova, ma segnando il viso fino a renderlo diverso da quel che era. Poco conta, in fondo, la trama dei suoi numerosi scritti, la cui brevità è inversamente proporzionale alla densità di contenuti, poiché i personaggi sono fantasmi del pensiero, come esseri creati da un Dio per dare voce ai propri pensieri.