venerdì 20 giugno 2014

recensione a Erri De Luca, Montedidio, Feltrinelli Ed.



Un paio d’anni fa ho avuto il piacere di vedere e ascoltare Erri de Luca al Salone del Libro di Torino e mi sono scoperto ad osservare che il suo modo di parlare sembrava rispecchiarsi molto bene nella sua scrittura: il ritmo regolare del suo eloquio, privo di brusche accelerazioni o di ripensamenti e incertezze, con una sottile musicalità quasi da cantastorie; l’attenzione sempre percepibile per la scelta delle parole; il suo modo di scandire una voce potente e cristallina da attore di teatro e, al tempo stesso, l’apparente fatica di parlare con una lingua che pareva non essere la sua più autentica, quella con cui parla la voce della sua anima.
Anche in questo romanzo breve, infatti, la napoletanità emerge come un dato centrale della sua biografia e proprio dal contrasto tra la lingua italiana e il dialetto napoletano prende avvio una riflessione di carattere antropologico intessuta all’interno della narrazione: l’italiano è una lingua straniera (p.20), lingua del Potere (“con l’italiano uno si difende meglio”, p.7), dunque una lingua distante, fredda, quasi burocratica (“scrivo in italiano perché è zitto e ci posso mettere i fatti del giorno, riposati dal chiasso del napoletano”, p.7),  una lingua incapace di comunicare le passioni che smuovono il napoletano, inabile ad esprimere la diversa sensibilità che lo caratterizza, in definitiva una lingua morta.
Erri descrive un mondo di povertà materiale, ma non spirituale; con i suoi personaggi mette in scena un popolo che vanta un suo codice morale e un suo proprio senso dell’onestà non imposto da un’educazione esteriore (“o si dice in faccia o si sta zitto”, p.71), gente che si prende molta confidenza persino con Dio, intrattiene con lui un rapporto blasfemo, fin quasi a negarne l’esistenza (“Rafaniello dice che a forza di insistere Dio è costretto a esistere, a forza di preghiere si forma il suo orecchio, a forza di lacrime nostre i suoi occhi vedono, a forza di allegria spunta il suo sorriso”, p.57) o l’interessamento per le umane vicende (“Sì, vede tutto [il padreterno], ma se non ci penso io a aggiustare le cose, se ne sta a guardare lo spettacolo”, 50), ci litiga, lo prende a male parole o se lo prende per mano, quasi fosse un pischello cui bisogna insegnare proprio tutto;  ma è un privilegio che questo popolo si è preso per ciò che ha vissuto, perché “ha conosciuto lo schifo” (p.69), ha visto troppo dolore e troppa violenza - una violenza che si sente nel corpo (“la mossa sbagliata di un altro schioda un coperchio e salta fuori il sangue maligno”, p.132) – e conosce l’arroganza della morte (“a Napoli la morte non si vergogna di niente”, p.67).  Una massa di dolore che ti attraversa da parte a parte solo quando ne è vittima un essere non toccato dal peccato, com’è il caso di un asino, nel racconto di don Rafaniello (“il suo grido invece è inutile, gigantesco, riguarda solo lui e Dio, l’uomo è escluso”).
A Napoli ci si deve arrangiare per vivere, perché non c’è Dio cui rivolgersi, né uomo o istituzione che non mettano davanti a tutto i lori interessi particolari, non c’è niente di sicuro cui aggrapparsi né fondamenta solite sulle quali costruire le proprie fortune, non si può nemmeno aver la pretesa di desiderare qualcosa (“L’anno passato non mi sognavo di chiedere questo, è successo da solo, senza un desiderio”, p.97); il caso sembra essere il vero padrone delle vite dei napoletani. Un esempio può chiarire ulteriormente questo aspetto: anche a Napoli, come in ogni dove, c’è chi lavora e chi vive del lavoro altrui, ma non a caso lì si usa sempre il verbo “tenere invece di avere. Avere è presuntuoso, invece tenere lo sa che oggi tiene e domani chi sa se tiene ancora” (p.89).
In questo panorama di macerie, ciò che tiene vivo e vitale, persino allegro, il napoletano è forse la banale consapevolezza che noi non bastiamo a noi stessi, in nessun caso, e che l’Altro può essere la nostra vera ricchezza, ciò che tutto cambia, persino il nostro modo di vedere il mondo, persino la coscienza di noi stessi e della vita (“pare che ci vuole un’altra persona che avvisa”, p.46). Il legame affettivo si configura anche come legame di sopravvivenza e questo lo rende ancora più intenso, indissolubile (“I nostri corpi alleati fanno i nodi”, p.101).
In conclusione, nei romanzi di Erri è così: ogni parola ha un peso specifico molto più alto della media “letteraria”, si nota un rispetto profondo per la sacralità del linguaggio, della parola pronunciata, detta o scritta, e quindi la cura nello scegliere sempre quell’unica parola giusta che attende di essere detta. Di conseguenza, le sue frasi ti sferzano il viso come un vento deciso che trasporta neve e ghiaccio, lasciando sulla pelle una sensazione di freschezza nuova, ma segnando il viso fino a renderlo diverso da quel che era. Poco conta, in fondo, la trama dei suoi numerosi scritti, la cui brevità è inversamente proporzionale alla densità di contenuti, poiché i personaggi sono fantasmi del pensiero, come esseri creati da un Dio per dare voce ai propri pensieri.

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