Un paio d’anni fa ho avuto il piacere di vedere e ascoltare
Erri de Luca al Salone del Libro di Torino e mi sono scoperto ad osservare che
il suo modo di parlare sembrava rispecchiarsi molto bene nella sua scrittura: il
ritmo regolare del suo eloquio, privo di brusche accelerazioni o di ripensamenti
e incertezze, con una sottile musicalità quasi da cantastorie; l’attenzione
sempre percepibile per la scelta delle parole; il suo modo di scandire una voce
potente e cristallina da attore di teatro e, al tempo stesso, l’apparente
fatica di parlare con una lingua che pareva non essere la sua più autentica,
quella con cui parla la voce della sua anima.
Anche in questo romanzo breve, infatti, la napoletanità emerge come un dato
centrale della sua biografia e proprio dal contrasto tra la lingua italiana e
il dialetto napoletano prende avvio una riflessione di carattere antropologico
intessuta all’interno della narrazione: l’italiano è una lingua straniera
(p.20), lingua del Potere (“con l’italiano uno si difende meglio”, p.7), dunque
una lingua distante, fredda, quasi burocratica (“scrivo in italiano perché è
zitto e ci posso mettere i fatti del giorno, riposati dal chiasso del
napoletano”, p.7), una lingua incapace
di comunicare le passioni che smuovono il napoletano, inabile ad esprimere la
diversa sensibilità che lo caratterizza, in definitiva una lingua
morta.
Erri descrive un mondo di povertà materiale, ma non
spirituale; con i suoi personaggi mette in scena un
popolo che vanta un suo codice morale e un suo proprio senso dell’onestà non
imposto da un’educazione esteriore (“o si dice in faccia o si sta zitto”,
p.71), gente che si prende molta confidenza persino con Dio, intrattiene con lui
un rapporto blasfemo, fin quasi a negarne l’esistenza (“Rafaniello dice
che a forza di insistere Dio è costretto a esistere, a forza di preghiere si
forma il suo orecchio, a forza di lacrime nostre i suoi occhi vedono, a forza
di allegria spunta il suo sorriso”, p.57) o l’interessamento per le umane
vicende (“Sì, vede tutto [il padreterno], ma se non ci penso io a aggiustare le
cose, se ne sta a guardare lo spettacolo”, 50), ci litiga, lo
prende a male parole o se lo prende per mano, quasi fosse un pischello
cui bisogna insegnare proprio tutto; ma
è un privilegio che questo popolo si è preso per ciò che ha vissuto, perché “ha
conosciuto lo schifo” (p.69), ha visto troppo dolore e troppa violenza - una
violenza che si sente nel corpo (“la mossa sbagliata di un altro schioda un
coperchio e salta fuori il sangue maligno”, p.132) – e conosce
l’arroganza della morte (“a Napoli la morte non si vergogna di niente”, p.67). Una massa di dolore che ti attraversa da parte
a parte solo quando ne è vittima un essere non toccato dal peccato, com’è il
caso di un asino, nel racconto di don Rafaniello (“il suo grido invece è inutile, gigantesco, riguarda solo lui
e Dio, l’uomo è escluso”).
A Napoli ci si deve arrangiare per vivere, perché non c’è
Dio cui rivolgersi, né uomo o istituzione che non mettano davanti a tutto i
lori interessi particolari, non c’è niente di sicuro cui aggrapparsi né
fondamenta solite sulle quali costruire le proprie fortune, non si può nemmeno
aver la pretesa di desiderare qualcosa (“L’anno passato non mi sognavo di
chiedere questo, è successo da solo, senza un desiderio”, p.97); il caso sembra
essere il vero padrone delle vite dei napoletani. Un esempio può chiarire
ulteriormente questo aspetto: anche a Napoli, come in ogni dove, c’è chi lavora
e chi vive del lavoro altrui, ma non a caso lì si usa sempre il verbo “tenere
invece di avere. Avere è presuntuoso, invece tenere lo sa che oggi tiene e
domani chi sa se tiene ancora” (p.89).
In questo panorama di macerie, ciò che tiene vivo e vitale,
persino allegro, il napoletano è forse la banale consapevolezza che noi non
bastiamo a noi stessi, in nessun caso, e che l’Altro può essere la nostra vera
ricchezza, ciò che tutto cambia, persino il nostro modo di vedere il mondo, persino la coscienza di noi stessi e della vita (“pare
che ci vuole un’altra persona che avvisa”, p.46). Il legame affettivo si
configura anche come legame di sopravvivenza e questo lo rende ancora più
intenso, indissolubile (“I nostri corpi alleati fanno i nodi”, p.101).
In conclusione, nei romanzi di Erri è così: ogni parola ha
un peso specifico molto più alto della media “letteraria”, si nota un rispetto
profondo per la sacralità del linguaggio, della parola pronunciata, detta o
scritta, e quindi la cura nello scegliere sempre quell’unica parola giusta che attende
di essere detta. Di conseguenza, le sue frasi ti sferzano il viso come un vento
deciso che trasporta neve e ghiaccio, lasciando sulla pelle una sensazione di
freschezza nuova, ma segnando il viso fino a renderlo diverso da quel che era.
Poco conta, in fondo, la trama dei suoi numerosi scritti, la cui brevità è
inversamente proporzionale alla densità di contenuti, poiché i personaggi sono
fantasmi del pensiero, come esseri creati da un Dio per dare voce ai propri
pensieri.
Nessun commento:
Posta un commento